Piena occupazione o piena attività? (ripartizione tra lavoro salariato e altre attività )

Abbiamo ereditato dal XIX secolo l’idea che ricchezza, lavoro e produzione siano intimamente legati. La produzione mette a disposizione del consumatore beni e servizi, il lavoro rende possibile la produzione ed è dunque ciò che “arricchisce” una società. Non è possibile ridefinire la ricchezza senza interrogarsi sulla nozione di lavoro, sia esso remunerato o gratuito. Le rappresentazioni tradizionali dell’ impiego, del lavoro e dell’attività in generale, messe in crisi dalla trasformazione delle forme di produzione, stanno cambiando insieme ad un’altra visione dell’economia. Esistono diversi modi di produrre che possono essere più o meno ricchi da un punto di vista del legame e dell’utilità sociale.

Nonostante l’occupazione non mantenga più la promessa di una certa qualità della vita, di stabilità e neanche quella di un reddito sufficiente per sopravvivere (working poors), essa resta sinonimo di inclusione e di integrazione sociale. Dopo gli anni del boom, l’aumento della disoccupazione e della precarietà hanno cambiato la situazione, tuttavia le rappresentazioni socio-culturali collegano ancora il lavoro a un reddito stabile, a uno status sociale, all’idea di rendersi utili agli altri e per questo ad un obbligo morale, proprio dell’età adulta. Anche nei paesi del Sud del mondo, la crescente monetarizzazione dell’economia esige l’accesso ad un lavoro che genera reddito. Per quanto riguarda le politiche pubbliche, esse si pongono come obiettivo l’inserimento sul mercato del lavoro e aderiscono al mito di una società di piena occupazione.

Le crisi ecologiche (il riscaladamento globale, il picco petrolifero, la riduzione di biodiversità…) ci impongono una riflessione sulla necessità di produrre sempre di più.

Nell’ottica di un’altra economia, è possibile progettare una società di piena attività in cui l’economia della cura (care economy) rimetta al centro dell’attività economica l’essere umano e il pianeta?

La New Economics Foundation propone di ridurre l’orario di lavoro a 21 ore e grazie alla ridistribuzione della ricchezza economica, di permettere le attività più produttive a condizione che contribuiscano a “vivere bene” insieme e a un benessere diffuso che non arrechi danno al pianeta. Esistono proposte la cui distanza dalla società del salariato è ancor più evidente e che puntano sulla creazione di un’allocazione universale che garantisca un’economia finanziaria e permetta il mantenimento di attività più autonome e di modi di vita sostenibili. Queste due soluzioni, unite al riconoscimento del gran volume di attività necessarie alla riproduzione sociale, costituiscono le basi possibili per un lavoro emancipato in cui il legame tra reddito e lavoro sarebbe spezzato e il lavoro ritroverebbe il suo significato originario di attività creatrice che contribuisce allo sviluppo della persona.